Infusione intra-coronarica di cellule autologhe del midollo osseo nell’infarto miocardico acuto
Studi clinici indicano che la somministrazione intracoronarica di cellule ossee autologhe derivate dal midollo ( BMC ) 1-7 giorni dopo infarto miocardico post-acuto ( AMI ) può migliorare la funzione ventricolare sinistra.
Non sono stati valutati momenti temporali precedenti.
Si è cercato di determinare l'effetto delle cellule del midollo osseo intracoronarico autologo sulla funzione ventricolare sinistra quando somministrate entro 24 ore da una efficace terapia di riperfusione.
Lo studio randomizzato, in doppio cieco e controllato con placebo, REGENERATE-AMI, ha arruolato 100 pazienti con infarto miocardico acuto anteriore e significativa anomalia nel movimento della parete regionale e li ha randomizzati a ricevere una infusione intracoronarica di cellule di midollo osseo oppure placebo entro 24 ore dall’intervento percutaneo primario di successo ( PPCI ).
L'endpoint primario era la variazione della frazione di eiezione ventricolare sinistra ( FEVS ) tra il basale e 1 anno determinata da imaging cardiaco avanzato.
A 1 anno, anche se la FEVS è aumentata rispetto al basale in entrambi i gruppi, la differenza tra i gruppi a favore delle cellule del midollo osseo era piccola ( 2.2%; P=0.10 ).
Tuttavia, è stato riscontrato un significativamente maggiore indice di salvataggio del miocardio nel gruppo trattato con cellule del midollo osseo rispetto al placebo ( 0.1%, P=0.048 ).
Gli eventi avversi sono stati rari in entrambi i gruppi di trattamento.
In conclusione, l'infusione intracoronarica precoce di cellule del midollo osseo a seguito di intervento percutaneo primario per i pazienti con infarto miocardico acuto e anomalie nel movimento della parete regionale, conduce a un piccolo miglioramento non-significativo nella frazione di eiezione del ventricolo sinistro, rispetto al placebo; inoltre, può giocare un ruolo importante nel rimodellamento dell’infarto e nel salvataggio miocardico. ( Xagena2016 )
Choudry F et al, Eur Heart J 2016; 37: 256-263
Cardio2016